10 marzo 2021

“Ognuno può rispecchiarsi in Sand”: intervista ai Balthazar

Verrebbe da dire che i migliori prodotti esportati dal Belgio da qualche tempo a questa parte non siano più la birra e la cioccolata, ma la musica. Uno stato decisamente piccolo eppure con una scena musicale incredibile, capace di far emergere nel corso degli anni artisti come dEUS, Tamino, Stromae, Faces On Tv e Balthazar. Già i Balthazar, che a due anni di distanza dal fortunato Fever, tornano con Sand, un album pensato ben prima dell'avvento della pandemia e che in un certo senso, come mi confermerà Jinte Deprez, co-frontman della band, si è rivelato profetico sotto molti aspetti.

Lo raggiungo telefonicamente, poco dopo che ha finito di mangiare quello che orgogliosamente mi ammette essere stato un pranzo italiano con mozzarella ed olio d'oliva. Parentesi gastronomica a parte, ecco cosa ci ha raccontato.

Partiamo dalla copertina del disco: l’Homunculus Loxodontus della scultrice olandese Margriet Van Breevort, un’opera diventata negli anni anche un meme popolare nei paesi dell’est Europa. Da cosa nasce questa scelta?
Avevamo visto una foto di questa scultura un paio di anni fa, da un amico che ce l’aveva girata dicendo: “Questa è l’immagine più inquietante, stramba e tenera che abbia mai visto!”. E così ce l’eravamo salvata sui nostri cellulari. Poi quando è arrivato il momento di scegliere la copertina dell’album, ci siamo messi a scrollare le foto che avevamo in memoria. Allora l’abbiamo ritrovata, trovandola buffa. E quando ci siamo informati sul significato di quella scultura, abbiamo scoperto che rispecchiava esattamente i temi del nuovo disco: l’attesa di qualcosa (come ad esempio prima di una visita medica) e quella strana sensazione d’imbarazzo che la accompagna. Mi piace il fatto che alcuni trovino questa scultura divertente, mentre ad altri faccia impressione. È molto interessante. Solo successivamente abbiamo scoperto anche la fama che aveva il relativo meme dell’humunculus nell’est Europa: la cosa ci ha stupito, ma speriamo che ci ci possa aiutare con il marketing lì. [ride] Forse è proprio una cosa da 2021: un artwork che è anche un meme! Ovviamente abbiamo chiesto il permesso a Van Breevort per fare in modo che potessimo usare l’immagine senza problemi. 

Vi siete sentiti intrappolati anche voi in una sala d’attesa, da quando è scoppiata questa pandemia?
In realtà abbiamo composto l’album poco prima che scoppiasse il Covid. Quindi si è trattato di mettere insieme le nostre esperienze personali e le tematiche che accomunavano le nostre vite. Quando superi la soglia dei trent’anni, ti inizi a rendere conto che il tempo non è illimitato. Eravamo tutto il tempo in tour, senza fare mai una pausa. E la copertina, così come il titolo Sand, vuole riflettere sul tempo che scorre. Ed è in un certo senso divertente che con il Covid tutti questi temi siano diventati estremamente attuali e tocchino ogni persona, indifferentemente dall’età: ognuno può rispecchiarsi nel nostro disco. All’inizio pensavamo che sia l’artwork che il titolo riguardasse solo noi. Ma poi con l’arrivo del Covid ci siamo resi conto che riguardava tutti. Ognuno si è ritrovato rinchiuso in una sala d’attesa, con la proprio normalità in stand-by. È come una sorta di album profetico: in un certo senso se ci pensi anche Fever lo era stato a suo modo

Da un punto di vista musicale, il vostro nuovo album continua la strada intrapresa con Fever. Non è stato difficile riuscire a mantenere un mood tutto sommato positivo, in un anno disastroso come il 2020?
Ad essere onesto, per noi è stato orribile principalmente all’inizio. Io poi personalmente sono stato felice di dover stare a casa per la prima volta in dieci anni. Sono riuscito a vedere i miei amici più spesso e sicuramente è stato positivo per la mia relazione con la mia ragazza. Se suoni in una band e vuoi guadagnare, devi sempre essere in tour. Sei praticamente costretto a farlo. E per la prima volta è stato come se potessimo mettere in pausa il fare i tour, senza doverlo fare “formalmente”. Ci siamo potuti concentrare esclusivamente sulla realizzazione del nuovo disco. Poi chiaramente la pandemia ha influito sulla sua registrazione: avremmo voluto farlo  esattamente come avevamo fatto con Fever, ossia andare insieme in studio, improvvisare e vedere cosa sarebbe successo. E naturalmente con il Covid non è stato più possibile. Questo ha influito molto sulla registrazione: eravamo tutti isolati a casa con i nostri computer. Abbiamo cercato di trarre  vantaggio della situazione: rispetto al passato abbiamo usato molti più sample, elementi elettronici e in generale abbiamo avuto un approccio molto più da producer. È bello che quando c’è una forza maggiore ad influenzare il tuo processo creativo, se decidi di abbracciarla c’è sempre qualcosa di positivo che esce fuori. Alcune nostre canzoni non sarebbero nate senza questo nostro nuovo approccio alla registrazione. In un certo senso è stato come se il Covid fosse stato il sesto membro della band che ci ha aiutato a finire il disco. [ride]

In Passing Through ho avvertito il diverso approccio alla registrazione: l’uso di un riff che si ripete in loop assieme ad una drum machine fissa è quasi una novità per voi. Com’è stato dover cambiare approccio di registrazione?
Anche nell’album precedente abbiamo usato le drum machine, ma è vero che ora abbiamo spinto molto sul loro uso per questo disco. Invece di avere un approccio più analogico, abbiamo usato molto i sample. Specialmente l’uso di un basso synth è una cosa nuova per noi. Siamo sempre stati molto orgogliosi del sound del nostro basso, ma ora è figo poter usare anche un basso synth, come in Passing Through. Lo rende molto più minimal nell’arrangiamento.

Un po’ come nel vostro singolo On A Roll. A proposito, il vostro video, come quasi tutti i vostri altri, è molto cinematografico. 
La cosa bella di fare i video è che puoi omaggiare ogni genere di film che ti piace!

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Si potrebbe dire che questo in particolare sia stato influenzato dal cinema di Nolan?
Sì. È sicuramente un video alla Christopher Nolan, con influenze anche da Ricomincio da capo con Bill Murray e Edge of tomorrow con Tom Cruise e vibes alla Fargo dei fratelli Coen. Quando ho scritto la canzone, ho realizzato che persino dopo tutti questi anni, più diventi vecchio e più ti rendi conto che sei sempre più vittima dei tuoi comportamenti. Persino quando decidi di cambiarli, il minimo cambiamento che provi a fare, non cambia mai il risultato delle tue azioni. Ho pensato che è come se fossimo tutti intrappolati nei nostri loop personali. È stato figo poter usare queste idee anche per il video, che fra l’altro è super low budget. [ride] Quelli sono sempre quelli che vengono meglio! È stato girato all’ultimo minuto tutto in un corridoio, da un nostro amico regista. Rispecchia perfettamente il significato della canzone.

In generale vi ho sempre trovati molto cinematografici sia nei video che nella musica. Siete grandi appassionati di cinema?
Innanzitutto grazie del complimento! Amiamo il cinema ed abbiamo la fortuna di avere diversi amici registi. Certo non è che vogliamo fare chissachè video profondi, ma l’alternativa a questo tipo di video sono quelli dove bisogna cantare tutto il tempo verso una telecamera, e per noi è più difficile. [ride]

Il cinema è una fonte d’ispirazione primaria per voi?
Eh… forse. Anche se non è che ci mettiamo a guardare un mucchio di film con l’intento di trarne ispirazione. [ride] Alla fine tutto può essere fonte d’ispirazione. In passato, soprattutto con Fever, ci è stato detto diverse volte che facevamo musica “cinematografica”: non è una cosa che abbiamo deciso a monte, probabilmente è solo una coincidenza, è il nostro gusto, è ciò che ci piace. E a proposito di gusti, sono sempre stato un grande fan di Morricone!

Durante l’ultimo tour aprivate i concerti con un intro ispirata proprio da lui. 
Esatto, era un intro di Fever riarrangiata nel suo stile. Ce l’aveva mandata un nostro amico e abbiamo deciso di usarla in tour. 

Sto per farti la domanda che probabilmente ti faranno tutti i giornalisti in Italia: da dove nasce il  verso in Losers:I wish I could sing “tralala" / The way Paolo Conte can”?
È divertente, perché in questo album abbiamo preso un meme russo per diventare famosi in Russia e citiamo Paolo Conte per ottenere lo stesso risultato in Italia! [ride]
Scherzi a parte, qui tutti lo conoscono ed è bello usare citazioni di un certo tipo, per niente scontate, in una canzone. Noi siamo suoi grandi fan ed era solo una questione di tempo prima che lo menzionassimo in qualche nostra canzone.

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Una delle canzoni che spiccano nel vostro nuovo album è You Won’t Come Around, una canzone d’amore decisamente non convenzionale. Com’è nata?
La canzone l’ha scritta Maarten, anche se lui a non fa piacere parlarne molto, perchè ovviamente è una canzone su una rottura sentimentale. È come una dolce ammissione di colpevolezza per esserti innamorato di una nuova persona poco dopo che ti sei lasciato. Sono cose che accadono. Ho sentito le parole della canzone per la prima volta circa un anno fa e ovviamente conoscevo la situazione alla quale alludevano: è una cosa che tutti sperimentiamo nella propria vita prima o poi. È veramente una bellissima canzone. 

A proposito di questo, tu e Maarten componete tutto. Di solito ognuno canta i propri versi?
Dipende. Se la canzone in questione è molto personale sarebbe strano che la cantasse quello che non l’ha scritta. È un processo che avviene fra noi due in maniera molto naturale. Per esempio Hourglass è stata la prima canzone che abbiamo cantato insieme, alternandoci nelle strofe e nei pre-ritornelli. Dipende, a volte le cantiamo insieme, a volte sono troppo personali per farlo. E questa è la grossa differenza rispetto a un progetto solista: a volte è un lavoro collettivo, altre volte meno.

Il Belgio è un paese piccolo, ma con una scena musicale notevole: un incredibile melting pot per molti musicisti come voi. Com’è stato crescere in un posto del genere, da un punto di vista musicale?
È molto interessante, perchè da un lato come hai detto tu, siamo un paese piccolo e non abbiamo una nostra tradizione musicale forte a differenza vostra o della Francia o del Regno Unito. Noi ci troviamo un po’ in mezzo a tutto questo e quindi assorbiamo un po’ da tutti gli altri. Siamo molto aperti verso le altre culture e alla loro musica. Prima parlavamo di Paolo Conte, che chiaramente è diversissimo dalle band inglesi: eppure tutte queste cose ci hanno ispirato allo stesso modo, così come il Canada con Leonard Cohen. Vedo così la scena belga: band che non devono seguire alcune regole, perché non c’è una tradizione forte. Quella te la devi costruire da solo con la tua band, prendono influenze e tradizioni estere e mettendole insieme in qualche modo. È esattamente un melting pot, come hai detto tu. Molti dei nostri artisti più interessanti come Stromae o i dEUS hanno tutti il loro stile: li ascolti e puoi dire “sì, suonano un po’ francesi, un po’ italiani, un po’ inglesi, un po’ americani”, ma in realtà è una cosa molto belga. Per noi è stata una fonte di grande ispirazione poter crescere qui: la consapevolezza di poter fare qualsiasi cosa ed avere la libertà di scegliere uno stile senza problemi. Adesso la situazione è un po’ cambiata, è diventata più commerciale: una volta c’erano molte più stazioni radio alternative, che sono ottime quando sei un giovane musicista. Comunque c’è una bella eterogeneità di generi da noi: non è solo la cosiddetta scena indie che va forte, ma anche altre come quella hip hop. E queste scene cambiano da città a città, tutto questo è una boccata d’aria fresca. Spero che molti artisti e band riescano a fare tour internazionali: è quello che fa crescere una scena.

Avete una scena emergente incredibile: penso ad artisti come Tamino o Faces On TV ad esempio. Avresti qualche altro nome nuovo da consigliare ai nostri lettori?
[ride] Di solito dico i due che hai appena citato: Tamino e Faces On TV! Fra l’altro sono anche nostri amici, d’altronde la scena da noi è molto piccola. A parte loro, sai, lo scorso è stato un anno strano, quindi non saprei neanche dirti chi altro di emergente sia uscito. 

Tornando a noi, quanto vi è servita la pausa che vi siete presi tutti dai Balthazar dopo il terzo album e l’avere i rispettivi progetti personali? Nella tua parentesi solista , ti sei reso conto in tour che ti mancavano i tuoi compagni di band?
Non all’inizio! Quindi siamo giunti alla conclusione che per noi la cosa migliore da fare per preservare la nostra sanità mentale era prenderci una pausa, ed essere ognuno per conto proprio per un po’, e magari lanciare rispettivamente dei progetti solisti, per sperimentare e anche per far sfogare ad ognuno il proprio ego. Se non l’avessimo fatto, penso che i Balthazar sarebbero diventati molto noiosi e scontati, e ci saremmo presto stufati fra noi. I nostri progetti solisti poi sono andati bene e ne siamo rimasti soddisfatti: e così ci è tornata presto la voglia di suonare di nuovo tutti insieme. I Balthazar sono un collettivo di diversi ego che cercano di fare musica che da soli non riuscirebbero a fare. Dall’altro lato è fisiologico che ogni tanto ci sia la necessità di variare e di non concentrarsi sempre su un unico progetto. Per un musicista è una cosa rivitalizzante.

Intanto comunque i vostri progetti solisti sono in stand-by ma non sono morti, giusto?
Forse, non lo so. Alla fine puoi essere un solista per il resto della tua vita, quindi nessuno di noi ha fretta su questo aspetto. Però è bello non sentirsi più imprigionati in una sola band. Probabilmente avremmo dovuto parlare di questo problema molto prima: quando ho visto cos’hanno fatto i miei compagni di band come solisti, sono stato molto orgoglioso di loro e in un certo senso sorpreso da quello che hanno creato. 

Ph: Alexander D'Hiet

Ormai sono passati circa dieci anni dal vostro disco d’esordio. Pensavate che saresti arrivati così lontano?
Sai, non pensavo che sarei mai arrivato a 33 anni, eppure… [ride] Eravamo molto giovani, pensavamo solo a procedere passo dopo passo. Siamo cresciuti molto negli anni, e adesso possiamo avere la giusta retrospettiva se ci guardiamo indietro. È stato tutto molto graduale, non è che la fama è arrivata di botto. Che poi non è che siamo così famosi, siamo sempre molto underground nella scena europea. Però mi piace dove ci troviamo adesso: è la posizione perfetta per la nostra musica. Da piccolo sognavo sempre di suonare in tour per l’Europa o per il mondo e quindi è bellissimo esserci riuscito e vedere tutti questi bellissimi Paesi.

Concludiamo con una domanda leggera: qual è stata la tua esibizione preferita di sempre?
Vediamo un po’… il mio concerto preferito di sempre… Probabilmente Milano!

Haha dai sul serio, non c’è bisogno di fare il paraculo!
[ride] No, no, sono serio! Mi ricordo che non era facilissimo durante l’ultimo tour avere sempre un bel pubblico, e quella sera la data era sold-out. Qui nel centro Europa le persone sono decisamente meno estroverse quando vanno ai concerti: le loro emozioni traspaiono di meno. E quindi quando ti esibisci devi sempre essere un po’ tipo: “Andiamo gente!”. E in Italia per noi è tutto l’opposto: tutti nel pubblico sono tipo “I like it!” (lo dice imitando l’accento italiano).

Era stato un gran bel concerto quello in Santeria a Milano, proprio una bella serata.
Sì anche per noi, c’era un’energia incredibile fra noi e il pubblico: quando è così accadono solo cose belle. Quindi sì, direi che i concerti come quelli sono i miei preferiti in assoluto: nè troppo grandi, nè troppo piccoli. Noi in Belgio suoniamo nei palazzetti e la gente si aspetta sempre che diciamo che quei grandi concerti sono i nostri preferiti: ma per noi sono quasi “chirurgici”, tutto è preparato e studiato al millimetro. A noi piacciono i concerti nei club dove avverti il sudore del pubblico e dove possiamo suonare ubriachi: nè noi, nè il pubblico sa come andrà a finire il concerto, ed è bellissimo.

Ph: Alexander D'Hiet